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ANPI
Cividale del Friuli

Malga Silvagno: il giorno nero
della Resistenza vicentina

Cividale del Friuli, 21 marzo 2014

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Nota della redazione: Ugo De Grandis ha presentato a Cividale il suo libro "Malga Silvagno. Il giorno nero della Resistenza vicenzina" (ed. Grafiche Marcolin) che ricorda i tragici avvenimenti che portarono all'eliminazione fisica di alcuni partigiani comunisti da parte di un gruppo di giovani partigiani di orientamento moderato. Una pagina drammatica che viene ben descritta dal lavoro di De Grandis e che, come potrete facilmente immaginare, ha aperto anche in Veneto un vivace dibattito.
Riportiamo sotto i passaggi più significativi dell'intervento di Ugo De Grandis e segnaliamo un video dall'autore che ben illustra gli avvenimenti.

video (parte 1)

video (parte 2)

 

Sulla vicenda di Malga Silvagno è stato steso per quasi 70 anni un velo di silenzio omertoso e complice e anche di recente, su alcuni giornaletti locali, sono apparse delle ricostruzioni storiche che descrivono le vittime di Malga Silvagno come dei criminali e degli ubriaconi dediti al vizio, quasi a giustificare il loro eccidio.
Questa storia comincia nella seconda metà del settembre 1943 quando, in una malga sul monte Cogolin alle spalle dell’abitato di Fontanelle di Conco (comune di Valstagno), si forma un distaccamento partigiano costituito da giovani che salgono sulle montagne e quattro maturi militanti comunisti. i giovani che salgono in montagna, dopo aver lasciato una prima base logistica in una casa di militanti antifascisti socialisti a Marostica, provengono principalmente da Marostica, Bassano e Vicenza. Raggiungono le balze dell’altopiano e, su indicazione del parroco di Nove di Bassano, arrivano alla canonica di Conco dove incontrarono don Luigi Capellari.
Il sacerdote, prima di indirizzarli verso Casara Cogolin, li istruisce al più puro attendismo dicendo loro di: “non apparire armati e non commettere grassazioni e delitti, mantenersi quindi nella pura difensiva, pronti a scattare quando fosse richiesto per la difesa della popolazione e per accelerare la liberazione della patria”.
I giovani si dirigono verso Malga Cogolin e incontrano, forse il giorno stesso o la mattina successiva, il primo protagonista di questa vicenda: Giuseppe Crestani.
Giuseppe Crestani era nato a Duisburg in Germania da genitori dell’altopiano emigrati in giovane età per sfuggire alla miseria. Dopo essere rientrato in Italia poco più che adolescente, rimane per poco tempo nell’Altopiano di Asiago. Decide quindi di andare altrove perché le devastazioni della i Guerra Mondiale, non permettevano di trovare né alloggio né lavoro.
A 19 anni va a Torino dal fratello maggiore e comincia a lavorare come cameriere in grandi alberghi spostandosi poi a Salsomaggiore e a Napoli. Nel corso dei suoi spostamenti entra in contatto con i funzionari del partito comunista clandestino (i cosiddetti fenicotteri) che, facendo la spola fra Italia e Francia, portavano materiale di propaganda, nuove idee e strategie.
Nel 1936 Crestani chiede il passaporto con il pretesto di andare a trovare i fratelli in Germania, ma, oltrepassato il confine, va ad arruolarsi nelle brigate internazionali che combattono in Spagna. Si distingue nei combattimenti contro il golpisti di Franco diventando comandante di compagnia.
Al rientro in Italia viene confinato a Ventotene dove viene liberato dopo il 25 luglio 1943 e quindi rientra a Conco dopo essere passato per Schio.dove prende contatti con i comunisti scledensi per farsi dare un po’ di armi.
Poco dopo da Valstagna giunge il secondo protagonista di questa vicenda: Tommaso Pontarolo (nome di battaglia Masetti) detto anche Coarossa (termine veneto che indica il codirosso) per la sua capigliatura fulva.
Tomaso Pontarolo era stato minatore in Francia, si era arruolato nella Legione Straniera passando due anni in Algeria e, a fine ferma, si era trattenuto a lavorare in una impresa di italiani antifascisti con cui si mantiene in contatto anche dopo il rientro in Italia quando va a lavorare nei pressi di Pola.
Qui viene intercettata la sua corrispondenza con l’Algeria contenente anche giornali antifascisti. Arrestato, passa 5 anni di confino a Ventotene, subito raddoppiati per essere rilasciato solo dopo il colpo di stato di Badoglio.
Arriva quindi alla malga Ferruccio Roiatti chiamato dal posto di comando di Canebola da Amerigo Clocchiatti che aveva ricevuto da Pietro Roasio l’incarico di organizzare le Brigate Garibaldi nel Triveneto.
Amerigo Clocchiatti chiama a coadiuvarlo nell’incarico Ferruccio Roiatti, una persona che conosceva da anni e di cui si fidava.
Ferruccio Roiatti, nato a Cussignacco nel 1908 e noto come persona tranquilla e grande lavoratore, comincia a maturare l’avversione al regime durante il servizio militare. Dopo il servizio militare entra in una importante organizzazione comunista a Udine che viene sgominata dopo una retata che porta in carcere una quarantina di persone.
Roiatti, condannato a 8 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, sconta la condanna al penitenziario di Civitavecchia, uno dei luoghi più duri del regime carcerario fascista. Qui sarebbe dovuto rimanere 8 anni se non fosse intervenuta l’amnistia concessa dal re per la nascita di Vittorio Emanuele (nipote di Vittorio Emanuele III). Dopo alcuni mesi sotto regime di sorveglianza, assieme a Emilio Trangoni, un altro udinese coinvolto con lui nella retata del 1934, si dirige verso il confine italo-svizzero dove sono arrestati mentre stavano per andare in Spagna.
Condotti a Udine, processati e condannati, Roiatti è destinato al casa di lavoro di Imperia, successivamente è trasferito a Udine, quindi al campo di internamento di Ariano Irpino e infine, vista la sua irriducibilità, è confinato alle isole Tremiti.
Sempre chiamato da Amerigo Clocchiatti, giunge al campo un quarto militante comunista proveniente da Venezia di difficile identificazione chiamato Zorzi o Maschio (probabilmente dei nomi di copertura) di cui si sa molto poco; aveva passato i 40 anni, non era in buone condizioni di salute e aveva problemi di sotto nutrizione. Il fatto che nessuno abbia reclamato la sua salma fa pensare a una persona senza genitori e senza fratelli.
Appena arrivati in montagna si stabiliscono subito le gerarchie: comandante diventa Giuseppe Crestani, originario del luogo con esperienza di guerra, mentre Ferruccio Roiatti diventa commissario politico del battaglione.
Su questo gruppo così costituito pongono gli occhi tutte le organizzazioni che erano sorte come funghi in quelle prime settimane di occupazione tedesca. A Vicenza nel capoluogo ci sono due comandi militari provinciali: quello ufficiale nominato dal CLN in cui si riconoscevano tutti i partiti e un comando militare alternativo denominato Comitato Militare Provinciale Dalla Pozza in cui militavano molti esponenti della sinistra vicentina. Un ruolo importante è ricoperto dalla Federazione Provinciale del PCI che raccoglie denaro, armi, vestiario e viveri per la Resistenza e per le Brigate Garibaldi del Veneto. Chi fa parte di una organizzazione può fare parte anche dell’altra e questo probabilmente crea qualche confusione nei ruoli.
Il Comando Militare dalla Pozza conferisce l’incarico di addetto militare a Carlo Segato, un giovane ufficiale di artiglieria appena rientrato dal fronte greco, che ha anche l’incarico di seguire un’altra formazione che si sta organizzando nei pressi di Recoaro. Segato dà a Renato Ageno, un sergente delle trasmissioni che si era trattenuto all’interno del distretto militare di Vicenza come impiegato militarizzato, l’incarico di agire a suo nome come addetto militare e di collegamento con il gruppo di partigiani che si trova nelle vicinanze di Conco.
All’interno del distretto militare opera anche il fratello Oscar Ageno, un fascista dichiarato e conosciuto che, all’interno della cellula P, ha l’incarico di vigilare sulla condotta politica dei militari del distretto.
Renato Ageno aveva una grande familiarità con gli ambienti del distretto militare dove c’erano ufficiali badogliani legati al governo che si stava costituendo al sud, ma aveva grande familiarità con Giovanni Battista Polga, il comandante della polizia ausiliaria di Vicenza, un feroce repressore delle formazioni partigiane e autore, con la cosiddetta "banda Polga", di ruberie e violenze sui contadini per far ricadere la colpa sui partigiani.
Sette componenti della banda furono arrestati e condannati a morte dalla magistratura nell’agosto del 1944.
Renato Ageno delega le sue funzioni a Elia Girardi abitante a Cono, ufficiale degli alpini ed ex seminarista.
La convivenza fra le due anime che formano il gruppo di Fontanelle di Cono è abbastanza difficile, irta di contrasti e di incomprensioni sul piano morale, specie in merito alla questione di procedere ad azioni contro il nemico e soppressioni di spie e avversari. La guerra è efficace se colpisce il nemico nei suoi beni materiali, nei suoi mezzi di locomozione, nelle sue attività produttive e nei suoi uomini.
Un altro problema è rappresentato dal desiderio dei giovani di andare a messa, desiderio lecito, ma pericoloso in una fase di clandestinità.
Crestani aveva già visto in Spagna cosa poteva succedere a chi, giovane coscritto nelle Brigate Garibaldi con scarsa motivazione ideologica, rientrava al paese per fare visita ai parenti o alla fidanzata. Spesso venivano catturati su indicazione delle spie, torturati e fatti confessare, mettendo a repentaglio la sicurezza delle formazioni antifranchiste.
Il recarsi a messa poteva comportare rischi analoghi, meglio non raccogliere quindi questa richiesta.
I giovani avevano tutti fra i 16 e i 20 anni con l’eccezione di Alfredo Munari di 30 anni, provenivano da paesi della pianura e da paesi dell’Altopiano di Asiago, località permeate da una mentalità conservatrice, a volte bigotta.
Avevano conosciuto il fascismo solo nei suoi aspetti coregrafici (le adunate, le parate, i comizi, …) e non avevano particolari rancori contro il regime come invece avevano i quattro comunisti che il fascismo lo avevano conosciuto bene. Avevano alle spalle anni di prigionia, avevano vissuto anni con persone che la pensavano come loro e nel confino avevano potuto confrontare le loro esperienze con quelle di altri perseguitati dal fascismo e, soprattutto Crestani, sapevano come si faceva la guerra.
I quattro comunisti impongono al distaccamento di Malga Silvagno una condotta aggressiva in piena linea con i dettami stabiliti dal comando generale delle Brigate Garibaldi. La parola d’ordine “agire subito” era in netto contrasto con l’attendismo che era stato insegnato ai giovani.
A volte degli storici revisionisti contestano la scelta aggressiva del movimento partigiano ritenendola causa di rappresaglie sulla popolazione civile e sostanzialmente inutile perché comunque sarebbero arrivate le forze alleate a liberare il territorio nazionale.
Churchill e Kesselring, da punti di vista opposti ritennero importante il contributo della Resistenza perché non permise ai tedeschi di dispiegare tutto il potenziale militare sulla linea del fronte costringendo numerose divisioni a svolgere azioni interne anti parigiane.
La prima azione avviene all’alba del 21 novembre 1943 con l’assassinio sulla strada che da Marostica sale a Conco di Alfonso Caneva, membro di una famiglia fascistissima del Vicentino. Per inquadrare meglio la famiglia del Caneva bisogna considerare che tre nipoti della vittima operano nell’Asiaghese come rastrellatori e un quarto nipote, Giovanni battista Caneva, è federale di Vicenza.
Il Caneva è ucciso perché, come testimonia il parroco di San Luca di Crosara, utilizzando la sua professione di commerciante di scarpe ambulante, raccoglieva informazioni e aveva denunciato molti giovani renitenti alla leva che poi furono deportati in Germania. Questo omicidio politico suscita un vero tornado di reazioni sia in ambiente militare che in quello civile in un periodo in cui il fascismo stava cercando di ricostruire le sue organizzazioni politiche e militari.
A Marostica si svolge una riunione fra Renato Ageno e un funzionario del distretto militare mandato apposta per vedere cosa sta succedendo e come mai questa formazione che loro seguono con interesse abbia messo in atto questa impennata operativa imprevista. Don Pierantonio Gios, un sacerdote che si è occupato della Resistenza nel Vicentino, riporta che la riunione si concluse giudicando inaccettabile la prospettiva che il comando del distaccamento potesse finire sotto il controllo dei comunisti.
Il tornado prodotto dalla morte di Alfonso Caneva tornado si acquieta ma solo per un mese. Dopo l’assassinio del Caneva, il gruppo si sposta da Malga Cogolin a Malga Silvagno, un sito più lontano da Conco e Marostica, ma con maggiori problemi logistici perché il nuovo rifugio si trova a 1200 m di altezza e a novembre fa piuttosto freddo.
Lì vengono a sapere che don Pietro Miazzi, parroco di Rubbio un paese vicino alla malga, custodiva nella canonica coperte e tessuti che un commerciante vicentino aveva portato per fare un po’ di mercato nero. Si pensa di andare lì e prendere un po’ di coperte con l’idea che rubare a un ladro non è poi così grave, ma questa proposta viene bocciata dai giovani, soprattutto da Luigi Nodari, ex carabiniere, che ritiene la canonica inviolabile anche se in gioco c’è la salute dei partigiani.
Questo fatto, anche se il problema viene in parte risolto con l’arrivo di coperte da valle, inasprisce gli animi e i contrasti, riportati da vari emmissari, spingono Amerigo Clocchiatti a recarsi alla viglia di natale a Malga Silvagno per capire come stanno le cose. Parla con i giovani e si apparta con i quattro militanti comunisti che lo mettono al corrente della situazione e soprattutto della disparità numerica fra i giovani, oramai una ventina, e i comunisti, solo quattro più qualche simpatizzante all’interno del gruppo. Clocchiatti promette dei rinforzi e, sceso in pianura, chiede al comando di Canebola l’invio di militanti di provata fede quali Paride Brunetti e i cugini Germano e Raimondo Zanella di Cadoneghe nel padovano. Clocchiatti va anche a Schio dove fa presente ai comunisti locali che a Malga Silvagno c’è bisogno di loro.
Ma a Schio erano scottati da quanto successo nei mesi precedenti: la dissoluzione del “gruppo del Festaro”, i cinque componenti arrestati erano al forte San Leonardo a Verona, uno era ancora all’ospedale con un proiettile in testa e in novembre, c’era stata la cattura di altri due importanti elementi, Luigi Sella e Gaetano Pegoraro, saliti in cerca di armi in Altopiano. Perdita di uomini, di quadri importanti e armi non invogliavano ad avventurarsi in una nuova missione, per di più in un contesto confuso.
Bruno Redondi, un emissario del PCI, sale a Malga Silvagno e presa consapevolezza della situazione, rientrato a Schio, impartisce l’ordine di far partire rinforzi verso la malga.
I cinque uomini che giungono alla Malga Silvagno arrivano troppo tardi.
Giuseppe Banchieri, segretario della Federazione Regionale Comunista di Padova, nel corso di due sopralluoghi a Schio, farà in seguito il pelo e il contropelo all’organizzazione scledense per aver tardato a mandare i rinforzi.
L’avvenimento che porta alla conclusione tragica dell’attività del gruppo di Malga Silvagno accade il 26 dicembre del 1943 con il secondo attentato mortale portato a compimento dal distaccamento: l’uccisione del tenente colonello Antonio Faggion, commissario prefettizio e podestà di Valstagna per 5 anni.
La sera, con il favore delle tenebre, si attende che il Faggion esca di casa per recarsi a prendere un bicchiere al Caffè Nazionale e lo si investe con una raffica di mitra. A questa azione partecipano Tommaso Pontarolo e due componenti del gruppo meno politicizzati, un ragazzo giovanissimo e Luigi Nodari, il carabiniere.
Appena la notizia si sparge in pianura, al distretto militare succede un terremoto tanto che il giorno 28, quando Ageno scende dalla malga dopo aver litigato furiosamente con Roiatti sostenendo che si può fare i partigiani senza colpire i fascisti, partecipa a una riunione a Vicenza con Carlo Segato, colui che lo aveva incaricato di tenere i contatti con il gruppo di Malga Silvagno.
In questa riunione si prepara l’assassinio dei quattro comunisti e probabilmente Elia Giradi torna alla malga per incaricare i giovani di passare all’azione. Il 30 dicembre Ferruccio Roiatti e Giuseppe Crestani si recano all’albergo “All’Alpino” di Fontanelle di Conco, un posto in cui avvenivano incontri e scambi di corrispondenza, ritenuto sicuro anche per il fatto che aveva una porta sul retro che portava nel bosco. Come mai quattro persone così esperte si separano? Probabilmente le cose non sembravano essere arrivate al punto di rottura e si confidava nell’arrivo di forze da Schio e dal Friuli a riequilibrare l’orientamento politico del gruppo.
Decimo Vaccari di Marostica, Luigi Nodari di Nove, Enzo Possamai e Giovanni Rossi di Sasso di Asiago, incaricati di sopprimere i quattro comunisti passano all’azione. L’unica testimonianza dei fatti è del partigiano Milo originario di Milano e viene rilasciata nel gennaio del 1944 e poi nel giugno del 1945 quando sarà interrogato una seconda volta.
Nel corso delle indagini dichiara che, mentre assieme a Zorzi sta riassettando l’armeria del gruppo ode un colpo di arma da fuoco provenire dalla cucina adiacente dove si trova Pontarolo che stramazza al suolo con una ferita alla nuca. Zorzi esce con un’arma dalla armeria per prestare aiuto al Pontarolo, ma viene falciato dalle raffiche di mitra del carabiniere.
Gli altri due comunisti sono attesi al ritorno nel tardo pomeriggio in prossimità di una vecchia ghiacciaia costruita in una cavità carsica di 24 metri di profondità. Crestani e Roiatti sono attesi presso la ghiacciaia “Buso del giasso” e qui vicino, sulla strada che porta alla malga, trucidati alle spalle e buttati nel buco.
I due uccisi in malga sono sepolti sotto la neve e saranno ritrovati intatti a metà febbraio con le mani legate davanti e incappucciati, un particolare, quest’ultimo, che sarà descritto da un quotidiano locale come di pretta fattura slavocomunista anche se le vittime erano comuniste.
Il recupero dei cadaveri evidenzia che la testimonianza di Milo è falsa: il cadavere con il colpo alla nuca non era quello di Pontarolo, come dichiarato dal giovane partigiano, ma era di Zorzi.
Zorzi, che nel gruppo svolgeva il ruolo di cambusiere, era stato accusato dai giovani di dare cibo ai comunisti e negare il cibo al resto del gruppo, ma lo stato evidente di malnutrizione smentisce queste affermazioni.
L’ipotesi di lavoro che propongo per descrivere gli avvenimenti è la seguente: Zorzi viene ucciso con un sol colpo alla nuca da incapucciato (anche se la relazione medica non dice nulla sul cappuccio) secondo lo schema delle esecuzioni militari in cui il condannato è incappucciato per evitare che i componenti del plotone di esecuzione guardino la vittima negli occhi prima di sopprimerli. Probabilmente, prima dell’esecuzione, le vittime sono interrogate per sapere la destinazione dei due componenti che erano andati a Fontanelle di Conco e per capire probabilmente la questione dei rinforzi.
Pontarolo dopo l’esecuzione di Zorzi tenta istintivamente di scappare forse anche grazie al fatto che il cappuccio permetteva di veder qualcosa, ma viene fermato da un colpo prima alla schiena e poi frontale all’altezza del cuore.
I quattro comunisti saranno portati al cimitero di Conco, seppelliti in terra sconsacrata e dopo alcuni anni i resti saranno dissepolti e buttati nell’ossario.
Dopo i fatti il gruppo si sposta in un’altra malga a Montagna Nuova di Dietro con un nuovo distaccamento e con nuovo capo politico. Elia Girardi recapita a Carlo Segato un biglietto datato il 7 gennaio 1944 e firmato probabilmente dall’ex seminarista che fa parte del gruppo in cui è scritto: “caro Segato, si è cominciato bene, il gruppo in montagna nuova è saldamente costituito, amalgamato e affiatato. Giù fra una settimana si potrà dare notizie ...”.
La nuova riorganizzazione non ha vita lunga perché 11 gennaio nella zona di Fontanelle di Conco sio svolge un grande rastrellamento che porta alla cattura di quattro giovani tra cui i tre degli assassini. Condotti a Vicenza sono incarcerati, torturati e fucilati al castello inferiore di Marostica il 14 gennaio: Decimo Vaccari, Luigi Nodari e Giovanni Rossi. Il quarto fucilato, Bruno Brollo non c’entrava nulla con i primi tre.
Il quarto assassino, Enzo Possamai, sfugge al rastrellamento e si arruola nella Guardia Nazionale Repubblicana, poi diserta in estate e quindi entra nelle formazioni bianche sui Colli Iberici dove incontra Ageno. Ma a novembre diserta dai partigiani e si arruola nella polizia ausiliaria. Il 28 novembre 1944 il comandante Polga viene ucciso in un agguato in un tratto di strada tra Malo e Valdagno e Enzo Possamai che il giorno dell’omicidio era stato assente, viene ucciso in caserma con una scarica di mitra dal suo superiore poco prima che Adelmo Caneva lo interrogasse sui suoi movimenti del giorno prima.
Le testimonianze del cognato del Piossamai fanno pensare che il giovane Enzo Possamai si stesse prestando per fare il mediatore in trattative fra l’ala moderata della Resistenza bianca e le colombe della Questura e che il giovane sia stato eliminato come testimone scomodo di trattative che avevano porato alla liberazione di partigiani catturati dalla X MAS.
Trattative che si svolgevano già a partire dal settembre del 1944 e che avevano al centro offerte di collaborazione e protezione dei prigionieri politici in cambio rassicurazioni per i loro destini personali a fine della guerra.
Ageno dopo la guerra sarà assunto dall’Ufficio Informazioni del CLN e riceverà due medaglie per meriti partigiani, morirà nel 1950.
Elia Girardi riesce a sfuggire al rastrellamento, catturato in seguito e rinchiuso in una caserma dei carabinieri, riesce a fuggire e a rifugiarsi sotto falso nome in una fattoria del trevigiano. Il 3 maggio del 1945 ritorna a Conco munito di un biglietto del CLN che gli attribuisce un comando di una battiglione fin dall’ottobre del 1943 e forte di questo pedigree partigiano diventerà primo sindaco di Conco liberata, poi segretario comunale a Tonezza del Cimone e in seguito fedelissimo di Mariano Rumor, big boss della DC Veneta.
Nella seconda inchiesta condotta dal PCI a partire da fine maggio del 1945 sono chiaramente individuati il contesto in cui avvennero i fatti, gli autori della strage, i mandanti, chi aveva trasmesso l’ordine di esecuzione e gli autori di una campagna di diffamazione messa in atto nei paesi attorno alla malga contro i quattro comunisti descritti come delinquenti comuni.
L’inchiesta termina con la condanna a morte di Carlo Segato che riesce a sfuggire alla pena e che in seguito sarà riabilitato.
L’inchiesta viene in qualche modo archiviata e si mette tutto a tacere anche per motivi politici: il quadro politico stava cambiando, era più utile descrivere la Resistaenza come un monolito e ragioni politiche spingevano ad sepellire questa storia in qualche armadio.
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