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ANPI
Cividale del Friuli

confine orientale e
questione nazionale

Cividale del Friuli, 3 maggio 2019

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Nota della redazione: proponiamo qui i passaggi più significativi dell'intervento della storica Alessandra Kersevan sul confine orientale italiano dal 1866 al 2000.

La legge che istituisce il Giorno del Ricordo stabilisce che il 10 febbraio si deve parlare non solo di foibe ed esodo, ma anche “della più complessa vicenda del confine orientale”.
In realtà, dall’istituzione di questa ricorrenza, né il 10 febbraio e neppure negli altri giorni dell’anno si sente parlare di questa più “complessa vicenda”.
E' importante capire il rapporto fra il confine orientale e nazione; il confine orientale, a partire dalla conclusione della III Guerra di Indipendenza nel 1866, è cambiato numerose volte. La III Guerra di Indipendenza porta quasi a compimento l’unità del paese e diventano sudditi del Regno di Italia gruppi di persone di altra nazionalità come gli abitanti delle Valli del Natisone e delle Valli del Torre definiti genericamente slavi.
Il confine stabilito nel 1866 è frutto dell’annessione all’Italia dell’ultima parte del Lombardo Veneto (il Veneto appunto) cioè del territorio appartenuto alla Serenissima, comprensivo anche del Friuli e delle Valli del Natisone e del Torre.
Il confine dopo la I Guerra Mondiale cambia spostandosi a Est, con l’ingresso di nel Regno d’Italia del Collio goriziano, dell’attuale Venezia Giulia e dell’Istria.
Questo territorio, chiamato in precedenza Ösaterreichisches Künstenland (Litorale austriaco), era caratterizzato dalla presenza di molte culture, fra cui quella italiana e friulana nella parte più occidentale, quella slovena nella parte nord e quella croata nella parte meridionale.
Poi un successivo confine, a seguito dell’aggressione dell’Italia alla Jugoslavia del 1941, raggiunge Lubiana e si avvicina a Zagabria. Con l'annessione al Regno d’Italia di questi nuovi territori si costituirà la nuova provincia di Lubiana.
Essere consapevoli di questi spostamenti confinari ci aiuta anche a capire l’atteggiamento dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo verso l’Italia e i partigiani italiani.
La storiografia italiana, quando parla di queste vicende, si dimentica che in questi territori c’era anche una popolazione costituita da sloveni e croati che furono perseguitati dal fascismo e che fecero una guerra di liberazione non pensando, in caso di vittoria, di ritornare a essere di nuovo membri dello Stato italiano.
Manca nella storiografia italiana, anche quella resistenziale, il punto di vista degli jugoslavi in merito alla questione del confine.
Sono stati scritti alcuni libri come “Il dolore e l'esilio. L'Istria e le memorie divise d'Europa” di Guido Crainz in cui si è cercato di mettere in evidenza i sentimenti di sloveni e croati rispetto alle vicende di confine, ma si tratta di un approccio sentimentale che non prende in esame le ragioni degli altri.
Dopo 8 settembre del 1943 il confine cambia ancora perché questi territori entrano a fare parte del Adriatische Künstenland (Litorale adriatico del III Reich) assieme alle attuali provincie di Udine e Pordenone, la provincia di Gorizia (più estesa di quella attuale) quella di Trieste ( più ampia di quella attuale) la provincia di Pola, la provincia di Fiume e la provincia di Lubiana.
Tutte queste province erano amministrate dal Gauleiter (Presidentedi Provincia) nazista Friedrich Reiner.
Questi territori, se avessero vinto i nazisti, non sarebbero tornati all’Italia, perché il III Reich aveva bisogno di un porto importante sul Mare Adriatico e Trieste sarebbe dovuta diventare una sorta di Amburgo sul Mediterraneo.
In occasione della giornata del ricordo, i neofascisti ribadiscono con insistenza che le formazioni della Repubblica Sociale italiana presenti in zona difesero l'italianità di queste terre, facendo finta di non ricordare che questo territorio era stato acquisito dai tedeschi.
La mancanza di un confine fra il territorio italiano e il territorio della nuova provincia di Lubiana permetteva alla resistenza jugoslava, iniziata già nel 1941, di spostarsi agevolmente nella parte della Venezia Giulia abitata da sloveni e croati e, nel 1942, di essere presente nelle Valli del Natisone.
Questa "libertà di movimento" permetteva agli sloveni di ripristinare di fatto una unità territoriale che permetteva alla lotta di liberazione, nonostante la repressione fascista e nazista, di svilupparsi su tutto il terriorio abitato da sloveni.
Questa unità avrebbe reso più difficile per gli sloveni accettare nuove divisione del popolo sloveno fra stati diversi.
Quando oggi si parla di “confine orientale”, sia qui da noi che nel resto d’Italia, emergono argomentazioni e idee confuse perché pochi ricordano che il confine orientale si è spostato diverse volte verso est e che quindi non sono stati gli slavi a espandersi verso ovest occupando territori Italiani, ma è stato l’esercito italiano che si è spostato ad est occupando territori abitati da sloveni, croati e, più a sud, da montenegrini.
Nel 1941 l’Adriatico era diventato un “mare nostrum” e l’espansionismo fascista aveva portato a termine un progetto di controllo completo di questo mare come era stato ipotizzato anche dall’irredentismo nazionalista prefascista.
C’era da parte del ceto politico italiano che ha guidato il Risorgimento la consapevolezza che queste terre erano abitate anche da popolazioni non italiane, però il pensiero politico aveva abbandonato ben presto gli ideali democratici risorgimentali e aveva progressivamente adottato nei confronti delle popolazioni della Slavia Veneta una posizione di ostilità verso una comunità che non parlava italiano avviando una politica di snazionalizzazione.
Una politica che vede l’istituzione nel 1878, ben prima dell’avvento del fascismo, dell’Istituto Magistrale di San Pietro al Natisone che doveva preparare maestri che italianizzassero il territorio insegnando la lingua italiana e la civiltà italiana contrastando l’uso della parlata locale.
Questo desiderio di italianizzare il territorio si accompagnava anche a un sentimento di disprezzo che portava a descrivere gli slavi come barbari, senza tradizione, senza senso della nazionalità, facilmente assimilabili e contenti e grati di esser accettati nella comunità italiana.
L’essere appartenuta alla Repubblica di Venezia, che ebbe nei confronti degli sloveni delle Valli del Natisone un atteggiamento pragmatico chiedendo in pratica solo la difesa del confine orientale della Serenissima e lasciando le tradizioni amministrative locali, favorì l’adesione all’Italia della Benecija.
Dopo la I Guerra Mondiale, con l’avvento del fascismo, la situazione divenne più difficile.
L’italianizzazione forzata nelle Valli del Natisone, portata avanti già prima della I Guerra Mondiale e sostenuta dall’irredentismo italiano e soprattutto quello triestino, subì una ulteriore accelerazione.
Per irredentismo si intende quel sentimento nazionalista presente nella piccola borghesia cittadina della Venezia Giulia che comprendeva persone (non soltanto di origine italiana) che avevano scelto politicamente e culturalmente le parti dell’Italia.
Questi irredentisti ritenevano di dover completare il Risorgimento italiano conquistando quella parte dell’Austria Ungheria che erano abitate da cittadini che erano considerati italiani, usavano le lingue romanze e avevano una tradizione che faceva riferimento l’Italia.
Nel desiderare l’unione all’Italia di queste popolazioni definite irredente, non si teneva conto che in alcune aree del confine orientale la popolazione non era costituita solo da italiani, ma c’era una percentuale superiore al 50% di sloveni e croati. Se riflettiamo sul termine “terre irredente” capiamo che ci troviamo a che fare con terre che dovevano conquistare una redenzione, un termine che ha più a che fare con la spiritualità, la religiosità che con la politica. Questa impronta religiosa la troviamo anche in parole (es.: “sacri confini”) che assumono un carattere che trascende la politica, diventando termini che hanno a che fare con l’emotività, l’affettività e che entrano profondamente nel cuore delle persone che credevano in questo ideale di italianità.
Se non si capisce questo è difficile capire perché questi irredentisti divennero poi in gran parte fascisti, scatenandosi spietatamente contro gli slavi che non accettavano di essere assimilati. Spesso si fa la distinzione fra il nazismo, descritto come movimento esclusivo per cui chi non era ariano non poteva fare parte della comunità, e l'irredentismo (e in seguito il fascismo) che sarebbe stato inclusivo, non basandosi per la discriminazione su basi genetiche, ma su basi culturali per cui anche uno slavo poteva diventare italiano se sceglieva di esserlo.
In realtà le cose non stanno così nemmeno quando si parla di “italianità adriatica inclusiva” perché, se leggiamo gli scritti di alcuni irredentisti triestini come Ruggero Timeus Fauro, un nazionalista estremo, scopriamo che l’eliminazione della componente slava dal territorio della Venezia Giulia era l'unica opzione possibile.
Il pensiero radicale di Timeus fu fatto proprio dal fascismo che ben presto assunse un atteggiamento molto duro nei confronti degli slavi. Nel primo dopoguerra gli abitanti della allora Venezia Giulia erano per la maggioranza sloveni e croati, ma questo fatto non era preso in considerazione dagli irredentisti che erano diventati il ceto dirigente italiano.
La Giornata del Ricordo si fonda su una conoscenza della storia, ad essere benevoli, precaria e credo che, se si conoscessero bene le vicende del confine orientale, non udiremmo molte delle stupidaggini che vengono declamate il 10 febbraio.
E' difficile approfondire in modo corretto la storia di questi territori e anche i libri di storia di uso scolastico si sono adeguati alla contingenza politica parlando quasi solo di foibe e citando numeri spesso fantasiosi e pompati verso l’alto.
(…)
Gli sloveni della Venezia Giulia nel corso della II Guerra mondiale, dopo il 1941 si ritrovarono a combattere con gli sloveni della provincia italiana di Lubiana che erano già impegnati nella Guerra di Liberazione.
Nel 1942 si aggregarono ai partigiani sloveni anche dei partigiani italiani, perché l’Esercito di Liberazione Jugoslavo fu fin da subito un esercito composto da tante nazionalità. Se Tito è riuscito a tenere assieme nella lotta partigiana tante nazionalità è perché ha dato la garanzia a tutte le nazionalità di essere rappresentate.
La situazione jugoslava era difficile perché, oltre a comprendere molte nazionalità, dal punto di vista internazionale una sua parte, la Serbia, era uscita vincitrice della I Guerra Mondiale, ma una seconda parte, la Slovenia e la Croazia, facenti parte dell’Impero Austro-Ungarico, era stata dalla parte degli sconfitti. Il Regno di Jugoslavia, proprio perché aveva un nucleo importante rappresentato dalla Serbia, veniva considerato un paese vincitore.
Alla fine della I Guerra Mondiale il confine orientale era conteso fra Regno d’Italia e Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (dal 1929 denominato Regno di Jugoslavia).
L’Italia era entrata in guerra a seguito di un patto segreto firmato a Londra che prometteva all’Italia, con la sconfessione dell’alleanza con Austria e Germania e l’entrata in guerra a fianco di Francia e Inghilterra, le terre irredente dell’Istria e una parte delle isole dalmate. Però questo passaggio di territori, con la formazione del nuovo Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni non era più facile da effettuare specie dopo che, con l’ingresso degli USA nella I Guerra Mondiale, la dottrina Wilson imponeva che le nazionalità fossero il più possibile inserite in uno stato nazionale.
Questo territorio fin da subito fu conteso e, i nazionalisti prima e i fascisti poi, parlarono di vittoria mutilata quando le richieste italiane furono accolte solo in parte.
La grande tensione in questi territori quindi cominciò subito dopo la fine della guerra del 1915-1918 e questo può anche spiegare, non giustificare, la recrudescenza dell’atteggiamento negativo delle autorità italiane nei confronti degli sloveni e dei croati del territorio, visti quasi come un nemico interno. Le stesse richieste di aver scuole nella propria lingua e di poter usare la propria lingua negli uffici pubblici venivano considerate come un affronto.
Il Provveditorato scolastico di Udine, già prima della guerra, aveva considerato molto disdicevole il fatto che nelle scuole delle Valli del Natisone, specie con i bambini più piccoli, si usasse la parlata locale slovena, quasi che sapere una altra lingua fosse un pericolo per il solo fatto che della gente la parlasse.
Questo sentimento antislavo avrebbe ben presto alimentato numerosi pregiudizi che avrebbero poi prodotto nel II dopoguerra la formazione nelle Valli del Natisone di una organizzazione clandestina che agiva anche contro coloro che solo avessero voluto usare lo sloveno nelle istituzioni pubbliche. I Tricoloristi, così si definivano, avevano un bollettino distribuito in queste terre nel 1946-1947, “Il tricolore” il cui linguaggio è interessante perché da l’idea di come qui fosse in corso un conflitto molto duro. “L’ombra oscura del teutone invasore, da un anno è per sempre svanita dietro alle immacolate vette alpine. Dopo la spaventosa bufera è ritornato a brillare libero il sole. Un anno di libertà è trascorso, ma non per noi! Per noi non è giunta ancora la liberazione. Là, nelle tane balcaniche, rugge ancora il mostro spaventoso con gli artigli in cerca di preda e con lo sguardo avido su noi e sulle nostre terre. Un nemico è stato abbattuto, ma un altro, più terribile, ci resta ancora da combattere e vincere, e noi dobbiamo combatterlo e vincerlo nel nome d’Italia. Solo allora verrà per noi la liberazione.”
Quanto scritto sul Tricolore era in piena continuità con il modo di agire e pensare nei confronti delle minoranze del ventennio fascista che prevedeva una italianizzazione forzata anche fin dentro la famiglia. Questo processo di italianizzazione raggiunse il suo apice nel 1929 con il Concordato fra Stato e Chiesa che spinse le gerarchie ecclesiastiche ad adeguarsi ad alcuni diktat del fascismo imponendo ad esempio l’uso dell’italiano anche nella liturgia e nell’insegnamento della dottrina cattolica.
L’allora arcivescovo di Udine Giuseppe Nogara, che aveva sotto la sua giurisdizione anche le parrocchie delle Valli del Natisone, si adeguò del tutto permettendo, solo temporaneamente, l’uso della parlata slovena delle Valli per un breve riassunto dell’omelia.
Molti preti nelle Valli e nella Venezia Giulia sentirono il peso di queste imposizioni ed ebbero un ruolo importante nella difesa della lingua locale.
Già nel 1913 i parroci delle Valli del Natisone scrissero una lettera a Roma per segnalare che nel Santuario di Castelmonte tutti i sacerdoti bilingui o trilingui erano stati sostituiti da frati cappuccini che venivano dal Veneto e dal Friuli che non conoscevano la parlata locale. Poteva succedere quindi che molti valligiani sentissero il bisogno di riconfessarsi presso il propri parroci perché temevano di non essersi spiegati bene e di non aver capito bene le indicazioni dei confessori italiani di Castelmonte. Ma quello che non riuscivano a capire era il perché non potevano usare nella pratica religiosa una lingua che fino ad allora avevano usato regolarmente.
Molti sacerdoti anche nel Collio, nella valle dell’Isonzo, nella Venezia Giulia e nell’Istria si ribellarono a queste imposizioni e furono perseguitati dal fascismo e in qualche caso confinati.
Il Partito d’Azione viene considerato come un partito laico, radicale e repubblicano con un ruolo importante nella Resistenza italiana. Nel Triestino, il Partito d’Azione fu però assolutamente nazionalista e propugnò nel II dopoguerra una forte separazione nazionale fra italiani e sloveni. La cosa che colpiva la resistenza jugoslava è che il Partito d’Azione aveva nei confronti del confine orientale una posizione estremamente reazionaria sostenendo fino dal 1943 la sua intangibilità. Fu lo stesso Partito d’Azione a cominciare a parlare a Trieste di rapacità slava ed Ercole Miani, un suo esponente triestino di rilievo, nell’agosto del 1943, parlava di imperialismo slavo e sosteneva la necessità di difendere il confine contro tutti i nemici, tedeschi o slavi che fossero.
Questo atteggiamento minava la fiducia dei partigiani sloveni nei confronti della Resistenza italiana perché le posizioni all’interno della Resistenza apparivano diverse anche se il CLN Alta Italia (organismo politico multipartitico della Resistenza) e CVL (organismo militare legato al CLN) era sempre stato favorevole alla collaborazione fra partigiani italiani e sloveni e non ha mai prodotto un documento che proponesse una rottura fra i due movimenti resistenziali, neppure quando la divisione Garibaldi Natisone passò, nel novembre del 1944, sotto il comando operativo del IX Corpus. Spesso i comandanti della Garibaldi Natisone, Giovanni Padoan “Vanni" e Mario Fantini “Sasso” sono stati accusati di essere stati traditori e anti italiani dimenticando che l’Esercito di Liberazione Jugoslavo era un esercito alleato che faceva parte della coalizione con USA, Gran Bretagna, Francia e URSS e che le questioni del confine sarebbero state discusse a guerra terminata in sede di trattative di pace.
Lo stesso passaggio della Garibaldi Natisone sotto il IX Corpus poteva riscattare l’onore dell’Italia infangato dall’aggressione alla Jugoslavia, perché permetteva di sostenere che l’invasione era stata innanzitutto un atto del regime fascista che non coinvolgeva tutto il popolo italiano. Questo ha consentito, in sede di trattativa post bellica, di riconoscere all’Italia alcuni meriti e forse è anche grazie alla Resistenza e alla collaborazione fra partigiani italiani e sloveni che, nonostante le aggressioni fasciste alla Francia, alla Grecia, alla Jugoslavia e alla Russia, che abbiamo subito una punizione molto meno dura di quella riservata alla Germania nel dopoguerra.
Questa collaborazione fra partigiani fu in un secondo momento considerata una forma di tradimento; i tempi stavano cambiando e anche al causa del revisionismo storico salito in auge negli anni ‘90, la Jugoslavia veniva descritta come un nemico non solo dell’Italia prima dell’8 settembre, ma anche dell’Italia della Resistenza.
La questione del confine era una questione vera perché Italia e Jugoslavia avevano degli interessi diversi sullo stesso territorio ed è logico che il problema sarebbe potuto essere risolto non soltanto definendo il confine netto fra due stati.
Ebbe un certo successo l’idea di costituire in queste zone una specie di Svizzera multinazionale che avrebbe permesso una convivenza fra varie culture con vantaggi anche economici per il porto di Trieste che avrebbe avuto un ruolo importante negli scambi economici con il Centro Europa.
Questa posizione ebbe il sostegno anche di alcuni esponenti della alta borghesia e in questo senso andava anche l’istituzione del TLT (Territorio Libero di Trieste) con zona A e B unite in una unica entità territoriale.
Il TLT divenne invece uno stratagemma politico per non affrontare subito dopo la guerra la questione del confine in un contesto complessivo internazionale che si stava complicando.
(...)
Un grosso problema è stato creato dal Presidente del Consiglio Europeo Antonio Tajani che, il 10 febbraio di quest’anno (2019), nel suo discorso alla foiba di Basovizza, ha inneggiato alla Istria e alla Dalmazia italiana, producendo un incidente diplomatico, non il primo, con Slovenia e Croazia.
La cosa è stata minimizzata, anche se io credo che questi episodi non siano frutto di un incontrollato impeto retorico, ma siano ben studiati in un contesto che ha visto rinascere il revanchismo specie da parte di alcune organizzazioni di esuli dalmati e istriani che hanno tessuto relazioni con analoghe associazione esuli tedeschi dall’Europa orientale. Le idee di questi gruppi sono un pericolo per la pace specie ora che le istituzioni europee stanno attraversando un momento delicato.
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