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ANPI
Cividale del Friuli

il processo di Pradamano

guerra alla guerra - Ugo De Grandis
9 febbraio 2019

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lì a poco sarebbe
Nota della redazione: Mentre ritornano ridicolmente in auge parole come "patria" e "patriota", vogliamo ricordare un gruppo di socialisti che negli anni' 10 del secolo scorso, con spirito internazionalista, si oppose strenuamente alla guerra e, con grandi sacrifici, lottò per la giustizia sociale in un'Italia che di lì a pochi anni sarebbe caduta sotto la dittatura fascista.
Proponiamo qui di seguito i passaggi più significativi dell'intervento dello storico Ugo De Grandis, autore del libro "Guerra alla guerra - I socialisti scledensi e vicentini al Processo di Pradamano" - ed. Museo Storico del Trentino

“Caro fratello, benché di buon grado mi sia pervenuta la tua lettera del 13 corrente, provai un certo che di sconforto nel sentire, anzi nel non sentire nulla. Credevo che ti avessi un po’ sfinito con la mia ultima lettera a rispondermi con dei concetti in opposizione o magari di consenso. Ma invece nulla. Io non vorrei neppure credere che quello che mi facesti sapere nella tua lettera non sia proprio dettame puro della tua coscienza, come non voglio credere che tu non abbia trovato parole di risposta alla mia lettera. Questi atteggiamenti tuoi, nocivi alla salute dell’umanità e del progresso che noi ci abbiamo preso l’incarico di tenere più in salute che ci è possibile, sono inqualificabi e tu sai benissimo che in fatti di questo genere non c’è da transigere, specie per questi momenti. Io si lo so e mi par di vederti, ti troverai da solo senza alcun amico o compagno che ti dia ascolto alle tue parole e perciò il tuo spirito combattivo di una volta, almeno mi pare, è del tutto scemato. Anch’io mi sono trovato in simili condizioni, ho subito però guardato più in là del mio naso e, un abbraccio delle idee confrontate con i fatti, mi ha fatto ritrovare quella fede che mi scalda e mi fa un apostolo fervente. Anche tu dovrai fare così. La via, diceva il grande Sciorè è fatta di gioie e di dolori. La nostra via è piena di spine e di supreme contentezze. Ieri il nostro glorioso Congresso di Roma che ha tatto trionfare ancora una volta l’intransigenza, oggi i fatti gloriosi della Russia e la grande manifestazione della gioventù italiana sono le cose che dovranno rianimarti. Gradirei un cenno circa la sottoscrizione all’Avanguardia. Vi saluto e sto benissimo, Walter e Cauduro ti salutano. Nazzari si trova a Milano in via Ciavarro n.8, scrivigli.
Con mille abbracci, abbimi tuo.
Pietro.

Fu questa lettera, spedita nel marzo 1917 da Pietro Pietrobelli al fratello Angelo, entrambi militari lungo il fronte carsico, ad accendere la miccia degli eventi ricostruiti nel libro “Guerra alla guerra”.
Pietro e Angelo Pietrobelli abitavano in via Palestro a Schio, cittadina industriale ai piedi delle Prealpi vicentine che allora contava 14 mila abitanti (oggi ne fa 40 mila), città culla dell’industria laniera italiana tanto da meritarsi il titolo, che mantenne per quasi un secolo, di Manchester d’Italia.
Pietro e Angelo abitavano nella via dove sorgeva il lanificio Rossi. chiamato familiarmente dagli abitanti di Schio la “fabbrica alta” perché era un edificio di mattoni alto 5 piani costruito, su modello inglese, da Alessandro Rossi. Oggi è un monumento di archeologia industriale, ma allora era uno dei più grandi stabilimenti d’Italia e in esso lavoravano 6 mila operai. Pietro e Angelo erano iscritti alla Federazione Giovanile Socialista Italiana ed erano membri della locale circolo socialista “ i figli della Comune”. Appartenevano alla III generazione di “scledensi (abitanti di Schio - N.d.R.) contro” cioè quegli uomini e quelle donne che, a partire dalla meta del XIX secolo, si trovarono a confliggere con imprenditori spietati, in primis Alessandro Rossi, padre e padrone di Schio che per fare quadrare i bilanci non esitava a dimezzare i salari, gettando nella disperazione famiglie numerose già prostrate dalla sottoalimentazione e dalle malattie endemiche della classe lavoratrice.
Se confrontiamo alcuni dati statistici relativi ai morti per tubercolosi di Schio (città industriale), Lonigo (città prettamente agricola del Basso Vicentino) e Vicenza (città capoluogo), osserviamo come Schio non fosse quell’eden descritto dagli storici agiografi di Alessandro Rossi. Gli uomini e le donne delle generazioni a cui ho fatto cenno in precedenza condussero una vera e propria lotta per la sopravvivenza. Una vita scandita da numerose proteste e frequenti scioperi che si protraevano per settimane e in un caso, nell’estate del '19, per alcuni mesi. Proteste e scioperi che si concludevano con una raffica di licenziamenti a cui seguivano altrettante partenze per lidi lontani. Vigeva un accordo fra gli industriali vicentini per cui, chi veniva licenziato per motivi politici da uno stabilimento, non poteva essere assunto da nessun altro. In questi frangenti gli industriali, la Questura e il Comune si rivelavano molto generosi perché il biglietto di imbarco, i passaporti e i visti venivano resi disponibili in pochi giorni. Nella quasi totalità dei casi si trattava di partenze senza ritorno per l’Australia, il Sudamerica, la Francia e il Belgio, …
Quei giovani di allora si trovarono a combattere un nemico altrettanto spietato, il militarismo, il braccio armato del capitale. Un militarismo che irregimentava per anni sotto una divisa i ventenni di allora per utilizzarli nelle sciagurate imprese coloniali o nella repressione del malcontento popolare.
L’ecatombe avvenuta a Milano nel maggio del 1898, quando Bava Beccaris cannoneggiò la popolazione che protestava per la fame provocando oltre un centinaio di morti, fu solo l’episodio più cruento di una lunga serie. In questo sentimento di ripulsa della guerra e della violenza, i socialisti di Schio e i socialisti italiani erano perfettamente allineati alle deliberazioni della II Internazionale, che sorta nel 1889, si era posta sempre come primo obiettivo il mantenimento della pace, considerata condizione indispensabile per l’emancipazione della classe operaia e di ogni progresso sociale. Le guerre, soprattutto quelle moderne, venivano considerate come frutto della concorrenza sui mercati mondiali delle nazioni capitaliste.
Queste considerazioni, diffuse fra i socialisti europei, erano state ribadite in conferenze internazionali che si erano susseguite, con cadenza biennale, nelle principali città europee (Bruxelles, Zurigo, Londra, …).
In tutti i convegni non fu mai trovato un accordo per reagire all’eventuale scoppio di una guerra mondiale o europea che allora sembrava ancora non imminente.
I principali contrasti erano fra l’ala radicale, capeggiata da Lenin e da Rosa Luxemburg, che proponeva, in caso di guerra, uno sciopero generale nei paesi belligeranti e l’ala più moderata, capeggiata dai socialisti tedeschi, che ritenevano che lo sciopero avrebbe indebolito le nazioni dove il movimento operaio era più forte, come la Germania, a vantaggio di paesi, come la Russia, dove il movimento operaio era debole.
Negli italiani il sentimento antimilitarista ebbe l’occasione di rinforzarsi più volte, la prima in occasione dell’ecatombe di Adua, quando il 1 marzo 1896, in poco più di 24 ore, le armate italiane condotte malamente al massacro dal generale Oreste Baratieri, lasciarono sul terreno 4 mila italiani e 2 mila ascari. Fu una ecatombe che provocò una crisi di governo con le dimissioni di Giolitti da Presidente del Consiglio e una rinuncia, durata 15 anni, alle ambizioni italiane di diventare una potenza coloniale.
Nel frattempo giunse il nuovo secolo con nuove speranze, ma anche di nuovi conflitti quali la guerra fra Spagna e Stati Uniti per il possesso di Cuba e delle Filippine, la guerra fra Russia e Giappone, i contrasti frequenti sul suolo africano fra Francia e Germania per il possesso delle colonie e infine i primi fermenti indipendentisti nei Balcani.
I nuovi conflitti portarono nuove preoccupazioni nei socialisti che non volevano che scoppiasse una guerra e pertanto gli incontri dell’Internazionale socialista ripresero con frequenza maggiore (Parigi, Amsterdam, Stoccarda, Copenhagen , Basilea, …), Al centro delle discussioni, era come proseguire nell’eventualità di una deflagrazione di un conflitto europeo che allora sembrava molto più probabile che non nei 10 anni precedenti. Anche questa volta non si riuscì a trovare una unanimità di strategie.
Nel frattempo il sentimento antimilitarista italiano fu rafforzato dallo scoppio del conflitto italo-turco. e l’estate del 1911 fu segnata da grandi manifestazioni e scioperi in tutte le città italiane. Ci furono anche manifestazioni a favore della guerra alla Turchia e per il possesso della Libia, la IV sponda e specie nel meridione, molti socialisti intravidero nella occupazione della Libia l’opportunità di sottrarsi alla morsa del latifondo e di avere terra da coltivare in proprio. Anche gli operai del nord vedevano nell’occupazione della Libia la possibilità di abbandonare i quartieri malsani dove abitavano e le fabbriche dove passavano 12 ore al giorno.
Il partito Socialista subì una prima scissione con Bonomi e Bissolati che, favorevoli all’intervento in Libia, si staccarono formando il Partito Socialista Riformista italiano. Le proteste continuarono anche dopo la dichiarazione di guerra del 29 settembre del 1911 perché non si vedevano i benefici promessi, anzi i prezzi crescevano, aumentava la penuria di generi alimentari con conseguenti scioperi per tutta la durata della guerra che si concluse, nell’ottobre del 1912, con il trattato di Losanna.
In realtà la Turchia mantenne ancora il controllo politico e religioso della Libia e spostò le sue truppe nei Balcani dove era interessata a mantenere il controllo del territorio. Noi italiani riuscimmo in realtà ad occupare solo una stretta fascia di territorio lungo la costa e ogni tentativo di ingresso verso l’interno fu fortemente contrastato con numerose vittime fra i nostri soldati.
Dopo la conquista della Libia ci fu una pausa di un anno e mezzo, ma cominciarono a manifestarsi dei segnali inquietanti nei Balcani. La situazione si risolse al tavolo della diplomazia anche grazie alle numerose manifestazioni indette dai socialisti europei che credettero così di avere la forza per bloccare la guerra. In questo clima un po’ “rilassato” risuonarono nel 1914 i colpi di pistola che uccisero a Sarajevo l’Arciduca Francesco Ferdinando e innescarono la i Guerra Mondiale.
L’Internazionale Socialista, malgrado tutte le discussioni avvenute nei 25 anni precedenti, fu colta del tutto impreparata. I socialisti dei primi paesi belligeranti (tedeschi, francesi, belgi e inglesi), votarono a favore dei crediti di guerra ottenendo a volte come contropartita l’ingresso in governi di larga coalizione detti di “unione sacra” e le masse popolari, quelle che avrebbero dovuto sollevarsi e fare la rivoluzione, risposero compatte e ordinate all’ordine di mobilitazione.
Questo provocò il fallimento della II internazionale che per due anni non si sarebbe riunita e una dura critica da parte di Lenin che così commento l’accaduto: “Se un tedesco sotto Guglielmo o un francese sotto Clemenceau dicesse "io come socialista ho il diritto dovere di difendere la mia patria se il nemico ha invaso il mio paese", questo non sarebbe il ragionamento di un socialista, né di un internazionalista, né di un proletario rivoluzionario, ma la dichiarazione di un nazionalista piccolo borghese, perché in questo ragionamento scompare la lotta di classe rivoluzionaria dell’operaio contro il capitale, scompare la valutazione di tutta la guerra nel suo insieme dal punto di vista della borghesia mondiale e del proletariato mondiale, scompare cioè l’internazionalismo e rimane un misero fossilizzato nazionalismo.”
In Italia alla dichiarazione di guerra dell’agosto 1914 fecero seguito 10 mesi di ipocrita neutralismo, perché il Governo italiano voleva entrare in guerra, ma doveva capire bene con chi sarebbe stato più conveniente entrare nel conflitto. Forse sarebbe opportuno ogni tanto ricordare ai nostri politici e ai nostri amministratori di ultima generazione che, quando sono chiamati a qualche cerimonia e parlano dell’Austria come di un nemico secolare, dimenticano che l’Italia fu alleata all’Austria dal 1882. Un’alleanza con Austria e Germania che fu interrotta dopo 33 anni sulla base di promesse di di più ampi vantaggi territoriali formulate da Francia e Inghilterra.
Il sentimento antimilitarista, specie nelle zone più prossime al confine con l’Impero Austroungarico, nei 10 mesi antecedenti l’ingresso dell’Italia in guerra, divenne molto forte.
Schio, la città che allora si trovava a pochi Km dal confine con l’Austria-Ungheria, percepì subito le conseguenze del conflitto con il rientro da Austria e Germania dei lavoratori stagionali, 31 mila nella provincia di Vicenza e di questi mille della sola Schio. Questo provocò nuovo malessere per l’aggravemento della crisi degli alloggi, della penuria alimentari e del rincaro dei prezzi e determinò l’intensificazione della propaganda socialista con la diffusione di opuscoli dal linguaggio molto duro. Un’inchiesta dei regi carabinieri portò all’arresto di molti militanti e a un processo, l’anno successivo, che fece molto scalpore.
Nel frattempo una nuova spaccatura investì il Partito Socialista perché al suo interno si formarono un movimento interventista, i neutralisti "tout court" e i neutralisti “con riserva”. Questi ultimi sostenevano che, se bisognava entrare in guerra, era meglio farlo a fianco della Francia contro le monarchie assolutiste europee.
Intanto Mussolini fu licenziato dall’Avanti e poi espulso dal partito e in molte città si tennero comizi contrapposti pro e contro l’intervento. Dopo tutti i discorsi fatti nei consessi europei, nel Partito Socialista prevalse una nuova parola d’ordine, quella di Costantino Lazzari, “né aderire, né sabotare”. Una forma di neutralismo passivo molto simile all'afascismo che 10 anni più tardi avrebbe caratterizzato i cattolici italiani.
Finché giunse il maggio del 1915 quando, con lo scoppio della guerra, i paesi dell’agro vicentino, come Schio, si trovarono a essere in zona di guerra e in zona di operazioni di guerra.
La realtà dura della guerra fu percepita fin dai primi giorni con l’arrivo dei profughi dalle vallate del Trentino al confine fra Vicenza e Trento (Altipiano di Asiago, Vallata dell’Astico, …) e con i primi bombardamenti aerei che procurarono molti morti fra i civili.
Nei primi due anni di guerra ci furono due importanti tentativi da parte del socialismo europeo di ricostituire l’alleanza che si era rotta con lo scoppio delle ostilità; due conferenze internazionali tenute in territorio svizzero (territorio neutrale) a Zimmerwald nel settembre 1915 e a Kienthal nell’aprile del 1916.
La delegazione italiana era guidata Angelica Balabanoff e da Giacinto Menotti Serrati, nuovo direttore dell’Avanti.
In quelle conferenze, soprattutto quella di Kienthal, le tesi di Lenin furono accolte con maggior simpatia anche perché venivano formulate a quasi due anni dallo scoppio della guerra quando erano evidenti gli effetti disastrosi del conflitto. Le tesi di Lenin non ebbero la priorità e prevalse ancora il “non aderire e il non sabotare” di Costantino Lazzari. I deliberati di quelle conferenze furono pubblicate, sfidando la censura, sull’Avanti e arrivarono anche alle trincee, alimentando anche grandi speranze.
All’inizio del 1917, l’anno definito dagli storici come “l’anno della svolta”, le tensioni all’interno del paese e in trincea giunsero al parossismo. Sul fronte si svolgevano vere e proprie carneficine, nel paese le ristrettezze economiche pesavano in modo insopportabile sulla popolazione.
La miscela esplosiva che avrebbe portato al processo di Pradamano si formò nel gennaio del 1917 con il rientro dei sodati dalla prima licenza invernale o la discesa dei soldati che venivano dalle isole e dal meridione nei paesi dietro il fronte. Occasioni di confronto fra la popolazione e i soldati sulla durezza delle rispettive vite nei due anni di guerra: molti sacrifici, molti morti al fronte, nessun successo. Se sul fronte giuliano non c’era stato nessun avanzamento, sul fronte trentino c’era stato un arretramento rispetto al maggio del 1915.
In quei mesi scoppiarono grandi scioperi specie nelle città dove c’erano stabilimenti militarizzati. Scioperi guidati in prevalenza dalle donne perché gli uomini erano al fronte e le donne, oltre a guidare la famiglia, avevano preso negli stabilimenti il posto dei mariti, dei fratelli e dei padri e percepivano bene le ristrettezze economiche.
L’episodio più eclatante accadde a Torino nell’agosto del 1917 dove ci fu una protesta di parecchi giorni per la mancanza del pane. Il gen. Gaetano Giardino (a Bassano in suo onore campeggia in un viale cittadino una statua di 4 metri elevata nel 1936), che aveva momentaneamente smesso la divisa per assumere il ruolo di ministro dell’interno, guidò una repressione spietata che determinò la morte di almeno 50 morti manifestanti.
Il 1917 è ricordato anche come l’anno delle rivolte più pesanti fra le truppe determinate da periodi di riposo abbreviati per la necessita di tornare al fronte. Questi moti furono repressi con episodi di giustizia sommaria, decimazione e fucilazione di soldati estratti a sorte, sulla base di un codice militare antiquato e di circolari giornaliere sempre più dure che esortavano a una salutare ed esemplare repressione.
In queste repressioni si distinsero particolarmente tre criminali quali Carlo Petitti di Roredo, Guglielmo Pecori Girardi e Andrea Graziani, il numero 1.
Si distinsero per la loro spietatezza nel riportare l’ordine lungo tutto il fronte e, Carlo Petitti di Roredo, anche all’estero con il corpo di spedizione albanese in Macedonia.
Bisogna ricordare che nell’estate del 1919 tutti questi episodi erano conosciuti perché il governo aveva cessato la censura sulla stampa e alle redazioni dei giornali arrivavano molte lettere di soldati al fronte e di civili che avevano assistito a questi fatti.
Il Ministero della Guerra diede ordine al gen. Donato Antonio Tommasi, avvocato generale del regio esercito, di indagare su tutti questi episodi e di fare una dettagliata relazione.
La relazione, molto voluminosa, finì in un cassetto.
Fu ripristinata la censura e tutti i generali per il quale Donato Antonio Tommasi aveva chiesto l’apertura di un inchiesta soprattutto per gli episodi cruenti e ingiustificati verificatisi durante la ritirata di Caporetto, furono riabilitati. Non furono nemmeno sfiorati da procedimenti giudiziari ed ebbero carriere brillanti sia militari che politiche.
Questo clima di indifferenza verso i soldati giustiziati in modo sommario permane ancora oggi e non si riesce a fare andare avanti il progetto proposto dal deputato Gian Piero Scanu per la loro riabilitazione e c’è stato anche chi ha promosso una raccolta firme perché questo progetto non passi.
Non è un caso che i fatti che portarono al processo di Pradamano si siano verificati proprio nella primavera del 1917, l’anno della svolta e l’anno iniziato con la prima rivoluzione russa, quella di febbraio.
Le truppe al fronte, informate per corrispondenza dai familiari dello scoppio della rivoluzione russa, accolgono la notizia con entusiasmo, ma queste notizie sono contrastate da un incremento della censura sulla corrispondenza.
Già il bando Cadorna promulgato il 24 maggio 1915 aveva introdotto delle regole sulla corrispondenza, ma queste furono inasprite quando i comandi si resero conto che fra le truppe crescevano i fermenti, man mano che arrivavano notizie che riferivano quanto accaduto a Pietroburgo.
La maggior parte degli imputati al processo di Pradamano prestavano servizio lungo il fronte del Carso e lungo l’Isonzo dove ci furono gli episodi bellici più cruenti quali le famose "spallate" di Cadorna che provocarono in un giorno solo migliaia e migliaia di morti, feriti e dispersi (un eufemismo per indicare i soldati dei cui corpi centrati dai colpi di artiglieria non si trovava neppure un brandello). Proprio in queste zone avvennero gli episodi di giustizia sommaria più cruenti quali la fucilazione di 28 soldati a Santa Maria Longa .
Il documento di Donato Antonio Tommasi raccoglie quasi tutti questi episodi di giustizia sommaria, anche se alcuni di questi tribunali furono allestiti in modo così improvvisato da non lasciare che qualche traccia in alcune cronache parrocchiali e negli articolo dell’Avanti.
Non era nemmeno un caso se la quasi totalità degli imputati di Pradamano erano inquadrati nella fanteria, l’arma meno specializzata dell’esercito, quella che accoglieva tutti, anche quelli scartati alla I e II visita di leva, quella che ha versato il maggior tributo di sangue nel corso della guerra.
Curzio Malaparte, personaggio camaleontico molto discutibile, così descrive la fanteria in un libricino poco noto “Viva Caporetto-la rivolta dei santi maledetti”: “Quando parlo di soldati intendo i pazienti, i buoni, gli ignari soldati di fanteria, che raggruppati attorno ai migliori elementi della piccola borghesia italiana, hanno tracciato strade, scalato montagne, conquistato a furia di sangue trincee e trincee, ucciso senza odio e senza odio dato la vita, che hanno compiuto miracoli e sacrifici indicibili, che sono morti a migliaia senza capire e senza farsi capire. Parlo della fanteria dove si entrava per destinazione o per vocazione o per punizione, come aveva stabilito Cadorna, il nemico della Fanteria”.
Fu grazie all’inasprimento della censura che venne scoperta la lettera che vi ho presentato all’inizio. Quella lettera fu trovata dalla censura militare assieme a un documento, scritto da Pietro Pietrobelli in un italiano impeccabile, intitolato “Patriottismo e governo” che rivelava in modo inequivocabile i sentimenti di questo giovane ragazzo nei confronti del massacro in atto. “Il patriottismo è un sentimento artificiale e sragionevole fonte funesta di gran parte dei mali che desolano l’umanità. Viene definito patriottismo quel sentimento che ci fa preferire a tutti gli altri popoli Il nostro popolo e che ci fa costruire il benessere del nostro popolo a scapito del benessere degli altri”. I comandi che intercettarono la lettera diedero subito ordine a due ufficiali dei reali carabinieri in forza al 223esimo Reggimento di condurre una indagine su quanto stava accadendo. Svolsero una prima perquisizione nell’alloggio di Angelo Pietrobelli che si trovava a Ronchi, poi andarono da Pietro Pietrobelli il cui alloggio si trovava sul Monte Nero. Queste prime perquisizioni permisero di scoprire che Pietro Pietrobelli aveva stretto un legame con Pietro Pizzuto, un socialista messinese già noto alla giustizia militare per aver partecipato alle proteste contro la guerra ed era stato internato, senza dover passare per un aula giudiziaria, in un paesino dell’entroterra messinese.
Pietro Pietrobelli e Pietro Pizzuto, dopo aver scoperto lavorando gomito a gomito al Comando del 223esimo Reggimento di condividere gli stessi ideali socialisti, decisero di iniziare un’opera di propaganda contro la guerra e per fare terminare questo massacro. I due coinvolgendo un altro commilitone, il sergente palermitano Francesco De Marines, iniziarono a scrivere lettere di propaganda a tutti i loro contatti siciliani e vicentini, con richieste di sottoscrizione ai giornali socialisti Avanguardia e Avanti, inviando anche una poesia abbozzata da Pietrobelli quando era all’ospedale militare e risistemata e musicata nell’inverno del 1916-17. Questa lettere finirono fra i capi di accusa del processo di Pradamano.
Riuscirono così ad allacciare un primo contatto con il sottotenente Umberto Fiore, un’altro socialista messinese, che si trovava al comando di un plotone del genio sulle montagne sopra Schio. Riuscirono a darsi appuntamento e a incontrarsi a Schio quando Pietro Pietrobelli ebbe la licenza invernale. Umberto Fiore con un permesso raggiunse Schio e incontrò Pietro Pietrobelli in via Palestro dove si scambiarono i deliberati della Conferenza di Zimmerwald e altro materiale di propaganda, con l’impegno a diffondere il materiale fra i commilitoni. Un altro elemento di contatto fra socialisti messinesi e vicentini fu Domenico Viotto.
Domenico Viotto era dovuto fuggire in Germania perché ricercato dopo uno sciopero particolarmente duro ed era rientrato quando il reato era stato prescritto. Era poi entrato nel circolo giovanile socialista di Vicenza e nel 1908, con una delegazione di socialisti vicentini, si recò a Messina distrutta dal terremoto per ricostruire un asilo infantile. Qui si fermò fino a che, con lo scoppio della guerra, non fu richiamato alle armi e mandato sull’Altopiano di Asiago.
Quando Francesco De Marines rientrò a Palermo contattò tutti i socialisti palermitani che conosceva diffondendo molto materiale di propaganda contro la guerra.
Nel corso della perquisizione nell'alloggio di Pietro Pietro belli fu scoperto il nome di un importantissimo elemento di raccordo: Pietro Nazzari.
Pietro Nazzari è stato il segretario del circolo socialista di Venezia, il fondatore del il sol del soldato, una organizzazione di supporto politico e di sostegno anche economico ai giovani che venivano spediti a fare il soldato a centinaia di Km da casa. Pietro Nazzari era stato internato a Mesozoi, chiamato alle armi, fu riformato per alcuni problemi cardiaci. Ritornato a Venezia, sotto falso nome raggiunse Milano per lavorare in forma clandestina alla redazione dell'avanti.
Durante la perquisizione dell'alloggio di Pietro Pietro belli furono trovati tutti i contatti che aveva con i socialisti di Schio, alcuni dei quali molto importanti come Riccardo Walzer, Giuseppe Cauduro, Pietro Tesso, Valore Pagnotta (il figlio Armando Pagnotta dopo l’8 settembre 1943 sarebbe diventato il comandante di una delle più agguerrite brigate garibaldine, la Brigata Stella), Giuseppe Zordan (il cui figlio, rientrato dalla guerra sul fronte greco-albanese con i piedi amputati, entrò nella Resistenza civile e, dopo la cattura avvenuta nel corso di una retata, fu portato a Mauthausen dove mori), Alfredo Bologna (autodidatta era riuscito a diventare assistente farmacista a Vicenza e aveva fondato a Vicenza il circolo giovanile socialista. Fu riformato e non partecipò alla guerra a causa di problemi polmonari).
Fra i socialisti Vicentini che entrarono a far parte di questa rete di contatti ricordiamo anche Ottorino Volpe, Emilio Zola, Antonio Peruffo, Marcello Trentin (tutti e 4 tipografi), Attilio Gentili e Gaetano Falcipieri.
I carabinieri individuarono inoltre un gruppo di 8 militanti socialisti di Cremona riuniti attorno alla figura carismatica di Tarquinio Pozzoli giovane socialista orfano di entrambi i genitori, ammalatosi di turbercolosi all’orfanotrofio, entrato a 14 anni nel circolo giovanile socialista di Cremona diventandone segretario. Mandato scavare trincee sul Carso rientrò a Cremona con gravi problemi di salute dovuti all’azione dei gas austriaci.
Pozzoli tenne contatti con molti socialisti fra i quali Giovanni Sidoli che, mandato a Caltanisetta nel deposito locale della fanteria, coinvolse nella propaganda socialista i commilitoni. Un altro nome significativo è quello di Dante Bernamonti che si sarebbe distinto nella lotta antifascista e avrebbe avuto un ruolo importante nel movimento cooperativo nel secondo dopoguerra.
L’ultimo imputato fu Alberto Meschi, anarchico, nato nel 1879, orfano del padre, spese la sua vita nella lotta contro l’alcolismo fra gli operai. Fu sindacalista anarchico fra gli operai a La Spezia, fuggì in Argentina dove collaborò a riviste anarchiche, espulso e ritornato in Italia partecipò a Massa Carrara alle lotte dei cavatori anarchici riuscendo a fare abbassare la giornata lavorativa da 12 ore a 6 ore e mezza. Riammesso dopo il processo di Pradamano nell’esercito, fu catturato dagli austriaci e portato nei Carpazi. Rientrato in Italia riprese l'attività sindacale, fuggì poi in Francia e nel 1936 partecipo alla guerra di Spagna.
L’inchiesta durò tre mesi con 500 perquisizioni e 52 arresti e ai primi di giugno gli imputati furono portati alle carceri del 24esimo Corpo d’Armata che avevano sede a Pradamano.
La fase istruttoria si concluse alla fine di giugno e 9 degli imputati, riconosciuti estranei ai fatti, furono ricondotti ai corpi di appartenenza e qui trasferiti in compagnie punitive.
Altri 8 avendo commesso il reato in zona non riconosciuta teatro di guerra (Bologna, Caltanisetta, Reggio Calabria, …) furono da tribunali territoriali.
I rimanenti 35 rimasero a Pradamano per essere processati in quello che sarebbe dovuto essere un grande evento giudiziario voluto da Cadorna per dare un segnale duro alle truppe e al paese in un momento in cui l’esercito italiano si trovava in un equilibrio precario.
Cadorna doveva quasi quotidianamente rendere conto dei mancati successi delle “spallate” su cui aveva risposto molte aspettative, ma che, al prezzo di migliaia di morti, avevano prodotto solo piccole conquiste territoriali di durata effimera.
Cadorna cominciò a mettere le mani avanti proprio a partire dal giugno 1917 scrivendo ben 4 lettere a Paolo Boselli, allora Presidente del Consiglio dei Ministri, accusandolo di non essere abbastanza duro nella repressione di quello che considerava il nemico interno: i disfattisti e i socialisti.
Lettere scritte nel breve susseguirsi di alcune settimane probabilmente per allontanare da se stesso la responsabilità di un crollo del fronte che aveva cominciato a percepire come probabile e imminente.
Cadorna voleva un processo esemplare e condanne esemplari, possibilmente capitali, e a tale fine fu costituito a Pradamano un tribunale straordinario. La scelta di un tribunale straordinario avrebbe abbreviato il processo, lasciando poco tempo al collegio di difesa di esaminare i singoli casi, non avrebbe permesso di far deporre i testimoni a favore e avrebbe avuto un collegio giudicante formato da giudici militari di alto grado .
Il processo iniziò il 23 luglio nella sede del tribunale del 24esimo Corpo d’Armata a Villa Giacomelli a Pradamano. Il Partito Socialista Italiano aveva compreso bene l’importanza del confronto che si sarebbe tenuto nell’aula processuale; era chiaro che a essere in gioco era il partito.
Fu allestito un collegio difensivo agguerrito e preparato nel quale spiccavano due nomi in particolare: Vito Fiaschi di Carrara, con alle spalle numerose difese di cavatori anarchici (picchiato dalle squadracce fasciste di Renato Ricci, morì nella seconda metà degli anni ’20 anche in seguito alle lesioni riportate nel corso dei pestaggi) e Mario Cavallari di Ferrara, socialista, deputato prima della guerra, interventista arruolato volontario con il grado di capitano ed espulso dal Partito Socialista.
All'atto della formulazione dell'accusa, il pubblico ministero, appellandosi all’art. 72 punto 7 del Codice Militare, additò la propaganda socialista come causa della diminuzione dello spirito combattivo delle truppe e di resistenza della popolazione, favorendo così l’azione del nemico. In sostanza era un’accusa di tradimento per la quale la pena capitale era scontata.
Ma la difesa, all’apertura del processo, riuscì a far accogliere alla corte la dichiarazione di non competenza territoriale del tribunale a giudicare un gruppo di 16 imputati vicentini e tutti cremonesi, tra cui Alfredo Bologna, Domenico Marchioro, perché non era stata provata la connessione di questo gruppo con gli altri 19 imputati di Schio, di Vicenza, di Messina e di Palermo.
Il processo fu così diviso in due tronconi, con il risultato di rompere l’unità di attacco e depotenziare il maxi-processo voluto da Cadorna.
Il primo processo durò 10 giorni con la richiesta di 3 condanne a morte per i principali imputati (Pietrobelli, Pizzuto e Umberto Fiore), pene detentive pesanti con molti ergastoli militari. I difensori riuscirono a dimostrare che gli imputati avevano sì diffuso materiale di propaganda socialista, ma fra compagni di fede. Non c’era stato nessun tradimento e nessuna volontà di tradire neanche per negligenza o per motivi inescusabili.
La corte, benché sottoposta a pressioni dall’alto molto forti, accolse le osservazioni e comminò solo pene detentive, anche pesanti, ma nessuna pena capitale, nessun ergastolo e molte assoluzioni .
Il secondo processo si svolse una settimana più tardi con lo stesso collegio difensivo e un diverso collegio giudicante. Anche qui molte assoluzioni e pene detentive, ma nessun ergastolo o pena capitale.
Dopo una settimana un gruppo di condannati ammanettati fu portato alla stazione di Udine con una carretta. Durante il trasporto, alla vista del colonnello che aveva emesso la sentenza di condanna, intonarono, in un moto di orgoglio, il canto anarchico “Addio Lugano” scritto da Pietro Gori allorché nel 1895 gli anarchici italiani furono espulsi dalla Svizzera. Durante la traduzione in treno, poco prima dell’arrivo a Vicenza dove avrebbero fatto una breve sosta nel Carcere di San Biagio, Emilio Zola lasciò cadere un bigliettino lungo la ferrovia dove c’erano degli operai al lavoro, chiedendo alla famiglia di portargli da mangiare in carcere. Furono portati al Forte Ratti di Genova e qui smistati nei peggiori penitenziari militari e civili italiani: Volterra, Gaeta, il Forte di Bard in Val d’Aosta, la Fortezza di Priamar a Savona, il Forte di Fenestrelle in Piemonte, il Forte di Longone nell’isola d’Elba.
Nel febbraio del 1919 arrivò il decreto per l‘amnistia per reati politici commessi sotto le armi e l’amnistia divenne effettiva con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 23 aprile del 1919.
Le scarcerazioni andarono a rilento ed Emilio Zola, detenuto a Padula (SA) in un ex campo di concentramento per prigionieri polacchi e boemi, rimase in carcere fino al primo ottobre a causa della perdita del fascicolo processuale.
Alfredo Bologna, prigioniero a Volterra, morì in carcere a causa dell’aggravamento dei suoi problemi polmonari dovuti alle difficili condizioni igienico sanitarie del luogo di detenzione.
Qualche mese dopo sul settimanale socialista vicentino “El Visentin”, Ottorino Volpe scrisse un lungo e accorato necrologio per il compagno morto in carcere.
“Chi mai potrà descrivere degnamente il suo martirio. Sotto alcuni palmi di terra, sotto una timida viola in un paese lontano e sconosciuto del corpo del nostro amato compagno non resta che un pugno di cenere. Ma il vento dell’avvenire che già soffia su quelle ceneri sparge ovunque un seme che rinovella il mondo. Un morto, no! Un simbolo (…) che noi agiteremo sempre fra le masse per raccoglierle e guidarle contro i sicari del dispotismo.”
Una volta scarcerati tutti i militanti tornarono a fare attività politica prima legalmente, poi con l’avvento del fascismo, in clandestinità subendo il carcere, il confino, i pestaggi e discriminazioni sul lavoro, ...
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